Partiamo da un presupposto: se nella band hai Nils Lofgren, e ti fai traviare invece dalla chitarra di Tom Morello, c'è qualcosa che non va (alzi la mano chi preferisce il lavoro di Morello su Tom Joad a quello di Lofgren su Youngstown, giusto per dirne una).
Il fatto, poi, che il disco sia composto da tre cover più o meno oscure, due brani già editi e una manciata di inediti, bè, non migliora la situazione.
Ma la cosa peggiore, al di là dei pregiudizi che si potrebbero avere, è che inizia proprio male.
High Hopes, cover degli Havalinas, già approcciata e registrata nel 1995, risulta qui meno piacevole della precedente, elettronica messa a caso, chitarra non equilibrata e via dicendo. Si salva la voce, certo, ma non basta.
Si prosegue con Harry's Place, outtake di The Rising (e si sente non poco la produzione di Brendan O'Brien) in cui si esagera in modo fastidioso con effetti, echi, riverberi e diavolerie varie, mettendo il testo in secondo piano e relegando il brano a essere skippato.
American Skin, per carità, è un bel pezzo, ma se ne sentiva davvero il bisogno? Elettronica, tastiere e Morello la appesantiscono senza discostarsi troppo dall'originale, e anche qui il tasto skip è in agguato.
La situazione migliora, e di molto, con Just Like Fire Would (brano dei The Saints), che porta una ventata di freschezza, un suono che torna ad essere più simile al rock del New Jersey (e Morello infatti sembra messo da parte), che però dopo un paio di ascolti sembra somigliare molto a Small Town (Mellencamp) mischiata a Waitin' On A Sunny Day, con qualche fiato a darle echi di Asbury Jukes. Niente di male, ma neanche di memorabile.
Down In The Hole ci riporta con i piedi per terra: elettronica, voce effettata, orrendi latrati di Patti Scialfa in apertura, e ritmica copiata e incollata da I'm On Fire (di nuovo i disastri di O'Brien). Ma se, con enorme fatica, si riescono a escludere i suoni fastidiosi, il pezzo ha delle potenzialità, il testo c'è, ci si può lavorare.
Heaven's Wall, in una parola, è orrenda. Non si intuisce nemmeno quale possa essere la direzione presa, sembra un loop infinito di "raise your hands" con il wah wah pompato a bomba, una ritmica improponibile e via dicendo. Senza dubbio, il pezzo più brutto del disco, e uno dei peggiori di Springsteen, di sempre.
Archiviato il lato A, il lato B mette in campo delle piacevoli sorprese, a cominciare da Frankie Fell In Love. Il brano ha un suono fresco e molto più vicino a quello di Bruce (Morello assente), il testo è ai limiti dell'assurdo, e nel complesso la canzone ha la carica, il sound e l'energia giuste.
Si migliora ancora con This Is Your Sword, pezzo che si potrebbe definire quasi folk-gospel, con Springsteen che fa da predicatore, "questa è la tua spada, questo è il tuo scudo, questo è il potere dell'amore rivelato, portatelo con voi ovunque andate, e date tutto l'amore che avete nell'anima" il ritornello trascinante, con John Freese a suonare una bella batteria.
Hunter Of Invisible Game continua sulla retta via, un valzerone che ci ridà uno Springsteen più intimista e, ancora una volta, un gran bel brano.
Chiuso il buon trittico, è la volta di The Ghost Of Tom Joad, canzone che più di tutte le altre ci sbatte in faccia le chitarre di Morello. L'apertura ricorda Lost In The Flood live, il violino western e la voce rabbiosa sulla ritmica elettrica ci fa ben sperare, ma poi il castello di carte crolla quando scopriamo che Morello non solo schitarra, ma canta anche, cosa che un pastore bergamasco, con tutto il rispetto, avrebbe fatto di meglio. Senza contare il fatto che il finale è massacrato da almeno tre (ma credo siano di più) chitarre che varcano il confine dell'elettronica, snocciolando effetti che snaturano la canzone e di cui, senza dubbio alcuno, non si sentiva il bisogno.
Ci si avvicina ai titoli di coda con The Wall, che sì, è vero, ricorda un po' Fields Of Gold, ma è una ballata intima e intensa, in equilibrio tra piano e fisa, con un gran bel testo.
La chiusura è affidata a Dream Baby Dream, cover dei Suicide, con cui Springsteen chiudeva i concerti del tour di Devils & Dust. Bell'arrangiamento, bella struttura, tutto ben fatto, il sipario si chiude su una nota positiva.
Nel complesso, viene bocciato senza pietà il lato A, e promosso con qualche riserva il lato B, ma in generale il disco si presenta quanto meno con un suono diverso dal solito: c'è la voglia di sperimentare, ma, al di là della chitarra di Morello - che sembra fare più male che bene - non sembra esserci una direzione precisa. C'è, forse, la voglia di proseguire la strada indicata da O'Brien con The Fuse o Worlds Apart, o le campionature e l'elettronica più o meno timidamente accennate in qualche pezzo di Wrecking Ball, ma non c'è un omogeneità di fondo.
Incredibilmente, il disco in sè funziona, ma dopo qualche ascolto emergono forti e chiari i segnali dei passi falsi, di cose che proprio non andavano fatte.
Tutto questo senza contare il fatto che anche la genesi è stata quantomai caotica: non si capisce per quale motivo (o per esaurire il prima possibile gli impegni contrattuali), Bruce chiama Ron Aiello, gli intima di scavare negli archivi più o meno recenti, entra in studio, registra alla buona qualche pezzo convinto di aver trovato la sua nuova musa in Morello, e poi dice a Aiello di tirarne fuori un disco, senza dargli una direzione.
Certo, non si può chiedere a Bruce di essere lo stesso di quarant'anni fa o di mantenere lo stesso suono, ma gli si potrebbe chiedere almeno a chi sia rivolto High Hopes. Ai seguaci di vecchia data, gente ormai tra i 40 e i 50 anni, che difficilmente si discosta da suono monolitico e fedele del rock della costa est? Ai ragazzini che hanno affollato gli stadi negli ultimi due anni di tour? A quelli che ancora fan non sono, nel tentativo di attirarli nel maelstrom, offrendo loro un mischione di suoni da cui si esce con più di un dubbio?
Aspettiamo il disco solista. O almeno, un seguito di quello con la Seeger Session.