Sono tornato ieri sera da Barcellona.
Per puro caso, negli stessi giorni in cui ero lì era nei paraggi anche un certo Bruce Springsteen, con tutta la famiglia e, già che c'era, anche con tutta la E Street Band.
E se il buon Bruce si fermava per un paio di tappe in quel del Camp Nou, già che ero lì, mica potevo tirarmi indietro e non andarci anch'io, no?
Amenità e scemenze a parte, avevo preso i biglietti (prato, che domande) per il concerto di domenica 20 luglio già a dicembre, mentre solo una decina di giorni fa ho recuperato quelli (tribuna, e amen) per lo show di sabato 19.
Atterrato a El Prat a metà pomeriggio di sabato 18, per un giorno e mezzo abbondante ho fatto il turista, con la morosa e vari amici springsteeniani che già sapevo di trovare in loco.
Ramblas, Sagrada Familia, Barrio Gotico, tapas, cervezas, palitos e via dicendo, senza esagerare ma al tempo stesso senza farmi mancare nulla, e poi finalmente, intorno alle 21.30 di sabato 19, al Camp Nou, per il primo concerto, seduto (si fa per dire, ovviamente siamo poi rimasti in piedi dal primo all'ultimo pezzo) in un ottimo posto di tribuna, sulla sinistra del palco.
Una scaletta un po' sgangherata, va detto, ma la presenza di Backstreets E Jungleland l'hanno resa indubbiamente godibile.
Finito lo show, abbandono subito l'idea di iniziare immediatamente la fila per il giorno dopo, e torno in albergo per almeno qualche ora di sonno, con l'idea di tornare davanti allo stadio intorno alle 10 del giorno dopo.
Per fortuna riesco a svegliarmi in tempo e anche a fare colazione (zuccheri e liquidi si dimostreranno indispensabili nel corso della giornata), e poco dopo le 10 sono davanti al Camp Nou. Prendo il mio numerino (796) e nel giro di un paio d'ore sbrigo anche la pratica braccialetti (che danno diritto all'accesso nel pit, la zona transennata di fronte al palco) e rimango libero di vagare per qualche ora: ed è sempre un piacere trascorrere le ore di attesa in compagnia delle "familiar faces", quella grande famiglia di fans con cui si condivide sole, pioggia, sudore, insulti, sorrisi, lacrime e quant'altro. Tony, Alessandro, Gabriele, Angela, Rob, Filippo, Mauro, Mario, Daniela, Vittorio, Gianluca, Pierpaolo sono soli alcuni dei personaggi con cui ho viaggiato, chiacchierato, mangiato, diviso stanze d'albergo, commentato senza voce al mixer alla fine, riso, pianto, aspettato.
Intorno alle 17 ci rimettiamo più o meno ordinatamente in fila, e ci prepariamo allo sprint finale, quello in cui per qualche attimo le amicizie si interrompono, non si guarda in faccia a nessuno, si dribblano i buffi ometti della security e si corre con l'unico obiettivo della transenna. In più c'è da dire che lo stadio in sè non aiuta: almeno trenta scalini ripidi in discesa, e poi una decina in salita, con la rampa finale che è larga per una persona appena; non solo: sul campo ci aspetta un telone in cui i piedi sembrano affondare, con la corsa che quindi viene rallentata.
I mesi di corsa pagano, e riesco a bruciare 2-300 numeri, arrivando brillantemente davanti al palchetto di destra, assicurandomi quindi di avere Bruce a mezzo metro in almeno un paio di occasioni.
Le quattro ore e passa che mi separano dall'inizio del concerto scorrono abbastanza rapidamente, e poco dopo le 22 le luci del Camp Nou gremito si spengono, e parte la classica musichetta di intro. Di lì in poi, saranno tre ore di rock e divertimento puro, senza sosta: una bellissima versione di This hard land, l'accoppiata elettrica Youngstown - Murder Incorporated e I'm going down sono solo alcuni dei pezzi che risalteranno nella scaletta (anche se, quando ho letto che su quella manoscritta era prevista Drive all night, mi sono morso le mani fino ai gomiti), fino alla grande festa finale con figli dei vari componenti della band sul palco, Evan James Springsteen alla chitarra acustica, American Land e Twist & Shout, con tutto lo stadio in delirio.
Alla fine, mentre contavamo i menischi distrutti nel corso della serata, i dolori vari ed eventuali, la stanchezza, il sudore e la fame, le facce erano un po' assonnate ma contente, felici di aver assistito all'ultimo atto europeo di questo tour.
Personalmente, mi ha fatto un po' impressione vedere l'enorme sassofonista nero Clarence Clemons che veniva trasportato dai camerini al retro palco (20-30 metri, non di più) con una macchinetta da golf, e la sua lunga e lenta uscita di scena a fine show non ha fatto che confermare le sue precarie condizioni di salute. Ma ci voglio credere, il Big Man ha ancora delle cartucce da sparare.
Dopo aver raccattato un panino e una birra (in Spagna non c'è l'abitudine dei porchettari nostrani, quindi l'impresa è stata ardua), grazie alla strepitosa organizzazione iberica ci siamo fatto il lungo viaggio verso l'albergo a piedi, raggiungendo il materasso alle 3.20 abbondanti.
Il mattino dopo, un breve giro per la città, due acquisti dell'ultimo momento e poi via verso l'areoporto. Al terminal, nemmeno a dirlo, è stato tutto un fiorire di magliette di Springsteen, braccialetti del pit, numeri sul dorso delle mani.
E sorrisi da tutte le parti.
Stay hungry, stay alive!
Per puro caso, negli stessi giorni in cui ero lì era nei paraggi anche un certo Bruce Springsteen, con tutta la famiglia e, già che c'era, anche con tutta la E Street Band.
E se il buon Bruce si fermava per un paio di tappe in quel del Camp Nou, già che ero lì, mica potevo tirarmi indietro e non andarci anch'io, no?
Amenità e scemenze a parte, avevo preso i biglietti (prato, che domande) per il concerto di domenica 20 luglio già a dicembre, mentre solo una decina di giorni fa ho recuperato quelli (tribuna, e amen) per lo show di sabato 19.
Atterrato a El Prat a metà pomeriggio di sabato 18, per un giorno e mezzo abbondante ho fatto il turista, con la morosa e vari amici springsteeniani che già sapevo di trovare in loco.
Ramblas, Sagrada Familia, Barrio Gotico, tapas, cervezas, palitos e via dicendo, senza esagerare ma al tempo stesso senza farmi mancare nulla, e poi finalmente, intorno alle 21.30 di sabato 19, al Camp Nou, per il primo concerto, seduto (si fa per dire, ovviamente siamo poi rimasti in piedi dal primo all'ultimo pezzo) in un ottimo posto di tribuna, sulla sinistra del palco.
Una scaletta un po' sgangherata, va detto, ma la presenza di Backstreets E Jungleland l'hanno resa indubbiamente godibile.
Finito lo show, abbandono subito l'idea di iniziare immediatamente la fila per il giorno dopo, e torno in albergo per almeno qualche ora di sonno, con l'idea di tornare davanti allo stadio intorno alle 10 del giorno dopo.
Per fortuna riesco a svegliarmi in tempo e anche a fare colazione (zuccheri e liquidi si dimostreranno indispensabili nel corso della giornata), e poco dopo le 10 sono davanti al Camp Nou. Prendo il mio numerino (796) e nel giro di un paio d'ore sbrigo anche la pratica braccialetti (che danno diritto all'accesso nel pit, la zona transennata di fronte al palco) e rimango libero di vagare per qualche ora: ed è sempre un piacere trascorrere le ore di attesa in compagnia delle "familiar faces", quella grande famiglia di fans con cui si condivide sole, pioggia, sudore, insulti, sorrisi, lacrime e quant'altro. Tony, Alessandro, Gabriele, Angela, Rob, Filippo, Mauro, Mario, Daniela, Vittorio, Gianluca, Pierpaolo sono soli alcuni dei personaggi con cui ho viaggiato, chiacchierato, mangiato, diviso stanze d'albergo, commentato senza voce al mixer alla fine, riso, pianto, aspettato.
Intorno alle 17 ci rimettiamo più o meno ordinatamente in fila, e ci prepariamo allo sprint finale, quello in cui per qualche attimo le amicizie si interrompono, non si guarda in faccia a nessuno, si dribblano i buffi ometti della security e si corre con l'unico obiettivo della transenna. In più c'è da dire che lo stadio in sè non aiuta: almeno trenta scalini ripidi in discesa, e poi una decina in salita, con la rampa finale che è larga per una persona appena; non solo: sul campo ci aspetta un telone in cui i piedi sembrano affondare, con la corsa che quindi viene rallentata.
I mesi di corsa pagano, e riesco a bruciare 2-300 numeri, arrivando brillantemente davanti al palchetto di destra, assicurandomi quindi di avere Bruce a mezzo metro in almeno un paio di occasioni.
Le quattro ore e passa che mi separano dall'inizio del concerto scorrono abbastanza rapidamente, e poco dopo le 22 le luci del Camp Nou gremito si spengono, e parte la classica musichetta di intro. Di lì in poi, saranno tre ore di rock e divertimento puro, senza sosta: una bellissima versione di This hard land, l'accoppiata elettrica Youngstown - Murder Incorporated e I'm going down sono solo alcuni dei pezzi che risalteranno nella scaletta (anche se, quando ho letto che su quella manoscritta era prevista Drive all night, mi sono morso le mani fino ai gomiti), fino alla grande festa finale con figli dei vari componenti della band sul palco, Evan James Springsteen alla chitarra acustica, American Land e Twist & Shout, con tutto lo stadio in delirio.
Alla fine, mentre contavamo i menischi distrutti nel corso della serata, i dolori vari ed eventuali, la stanchezza, il sudore e la fame, le facce erano un po' assonnate ma contente, felici di aver assistito all'ultimo atto europeo di questo tour.
Personalmente, mi ha fatto un po' impressione vedere l'enorme sassofonista nero Clarence Clemons che veniva trasportato dai camerini al retro palco (20-30 metri, non di più) con una macchinetta da golf, e la sua lunga e lenta uscita di scena a fine show non ha fatto che confermare le sue precarie condizioni di salute. Ma ci voglio credere, il Big Man ha ancora delle cartucce da sparare.
Dopo aver raccattato un panino e una birra (in Spagna non c'è l'abitudine dei porchettari nostrani, quindi l'impresa è stata ardua), grazie alla strepitosa organizzazione iberica ci siamo fatto il lungo viaggio verso l'albergo a piedi, raggiungendo il materasso alle 3.20 abbondanti.
Il mattino dopo, un breve giro per la città, due acquisti dell'ultimo momento e poi via verso l'areoporto. Al terminal, nemmeno a dirlo, è stato tutto un fiorire di magliette di Springsteen, braccialetti del pit, numeri sul dorso delle mani.
E sorrisi da tutte le parti.
Stay hungry, stay alive!
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