venerdì 28 giugno 2013

Siamo cresciuti insieme


Dieci anni fa. Esatti.

Intorno alla mezzanotte del 28 giugno 2003 (sì, avete capito bene, della notte tra il 27 e i 28, che c'è di strano?) arrivo davanti a San Siro, e con "davanti" intendo che ho proprio parcheggiato la macchina nel piazzale dello stadio, a pochi metri dagli ingressi 13 e 14.

Perchè, dopo un'attenta operazione di intelligence (leggi: ore buttate via) avevo stabilito che quelli sarebbero stati gli ingressi migliori per lo sprint dentro il pit e poi sotto al palco. Ipotesi poi naturalmente andata in fumo.

Ai tempi non c'erano lotterie e diavolerie varie, si entrava nel pit da tutti i cancelli o quasi, il che voleva dire che a occhio le prime 50-100 persone di ogni cancello avrebbero ricevuto il braccialetto, guadagnandosi quindi l'ingresso nel pit.

Ah, ma non avete ancora capito di cosa sto parlando?

Bruce Springsteen & The E Street Band. A San Siro, Milano. Dieci anni fa. Diciotto anni dopo la loro prima comparsata nello stesso stadio.

Tornando a noi.

Arrivo allo stadio intorno a mezzanotte, sono il numero 3 (il numero 2 non arriverà mai, poltrone), ma nessuno si è ancora preso la briga di fare una lista. Mi improvviso allora uomo lista, estraggo un foglio, una biro, un pennarello nero e comincio a vergare numeri a destra e a sinistra, dettando legge per gli appelli, cercando un giusto equilibrio tra i cuori di burro troppo democratici e gli springsteeniani talebani cresciuti nel culto della sofferenza e del dolore.

La sofferenza arriva comunque, sotto forma di umidità, zanzare, diluvio, e poi, una volta spostata la macchina vicino all'ippodromo (alle prime luci dell'alba), caldo clamoroso, sole, varie, eventuali. Per fortuna l'atmosfera rimane rilassata, tra disciplina e buonumore, e non molto dopo pranzo ci mettiamo in fila nelle transenne, e attendiamo i braccialetti con la faccia stanca di chi si prepara all'ultimo sprint.

Poi, naturalmente, il delirio.

I cancelli vengono aperti non tutti insieme ma in ordine casuale, si crea un imbuto all'ingresso del pit, gente che scavalca, gente che si fa male, gente che si insulta, e alla fine siamo dentro. Altre ore di attesa, svuotando gli zaini dagli ultimi panini, acqua, gatorade.

E poi inizia.

Partono le note di Morricone (C'era una volta il West, mica cotiche), sale la band, e dopo qualche minuto l'armonica del rocker del Jersey dà il via a The Promised Land, cui faranno seguito altre 24 canzoni.

E se gli accendini su Darkness On The Edge Of Town fanno capire che in fondo il pubblico italiano è un po' confuso, il diluvio universale misto al freddo siberiano che arriva sul finire di Empty Sky manda a ramengo gli schemi, distrae quasi tutto il prato su The River, e regala al pubblico una Waitin' On A Sunny Day eccezionale, con tanto di cappello da cowboy e scivolata infinita sul palco.

E poi arriva Growin' Up.

Che parte normale, ma poi a metà Bruce "a little more piano, lights down, eccomi qua, a Milano, nel 1985, e per la prima volta ho suonato in Italia", fa tutto un discorso sulla prima volta che è venuto in Italia, e su come siamo cresciuti insieme, e tutti a dire che no, i rocker veri non piangono mai, dai, è la pioggia, su.

Ci saranno ancora Follow That Dream, No Surrender, lo sguardo di Bruce e Patti sul "c'mon rise up" di My City Of Ruins, la Rosalita finale e via dicendo, ma quella Growin' Up rimarrà per sempre il punto centrale del concerto.

Anche dieci anni dopo.

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