Bè, non c'era verso, non potevo più aspettare.
E quindi stasera, complice il fatto che non ci fosse nessuna partita di Champions rimasta in cartellone, e reo di lasciare da parte giusto un paio di film (per la cronaca, Into the wild di Sean Penn e There will be blood di Paul Thomas Anderson) per un futuro prossimo, mi sono messo sul divano a guardare questo quarto capitolo della saga dell'eroe.
Non sapevo cosa aspettarmi.
O forse sì.
Dopo Rocky Balboa, episodio conclusivo della storia del pugile di Philadelphia, sapevo che questo film non poteva esserne molto distante, soprattutto nella filosofia di fondo, nella storia dell'uomo al centro di tutta la vicenda.
Ma forse non mi aspettavo una scelta così radicale.
Il secondo e il terzo film della serie vengono spazzati via come non fossero mai esistiti, e con loro se ne va tutto l'eroismo a stelle e strisce, tutto il machismo anni '80 e anche tutta l'ironia che il personaggio poteva regalare. Il Rambo che abbiamo di fronte è alla soglia dei sessant'anni, stanco, silenzioso, cupo, un uomo che non crede più in nulla e in nessuna bandiera, e che se ne vuole solo stare da solo in qualche angolo di mondo. E fin qui niente da dire, il filmato iniziale che apre il film potrebbe far pensare anche a qualche intento di denuncia (contro le condizioni della popolazione birmana).
Peccato che poi bastino gli occhi dolci e qualche parola - banale - della bionda di turno, peraltro neanche una stragnocca siliconata, ed ecco che il vecchio John accetta di rimettere le mani nella melma, almeno un po'.
Nei primi cinquanta e passa minuti di film (che ne dura poi 90 scarsi) vengono sparate poche pallottole, non c'è un sorriso, le battute dello stesso Rambo sono pochissime e monocorde. E vabè.
Poi, quando sembra che tutto torni tranquillo, si scopre che le persone - bionda inclusa - che il protagonista aveva accompagnato alla loro destinazione sono state rapite dai sanguinari birmani, e allora ecco che il nostro si incazza come una biscia e, di fatto, guida un gruppo di mercenari a recuperarle. A questo punto i morti fioccano da tutte le parti, e in tutte le salse: frecce che sibilano, coltelli forgiati a mano, giugulari strappate con le nude dita, mitragliate di non so che calibro a distanza ravvicinatissima, con un effetto splatter che spruzza sangue un po' ovunque.
La scena finale, che non voglio svelare per chi vedrà il film, è quasi sicuramente la migliore della pellicola, nonostante l'impari confronto con il Rambo di quasi trent'anni fa e la pettinatura poco credibile di Stallone. Come già Rocky Balboa prima di lui, anche John Rambo abbandona la scena, chiudendosi un degno sipario alle spalle.
"Mi ripugna ammetterlo, ma stiamo diventando troppo teneri."
"Forse solo un tantino, signore. Solo un tantino."
E quindi stasera, complice il fatto che non ci fosse nessuna partita di Champions rimasta in cartellone, e reo di lasciare da parte giusto un paio di film (per la cronaca, Into the wild di Sean Penn e There will be blood di Paul Thomas Anderson) per un futuro prossimo, mi sono messo sul divano a guardare questo quarto capitolo della saga dell'eroe.
Non sapevo cosa aspettarmi.
O forse sì.
Dopo Rocky Balboa, episodio conclusivo della storia del pugile di Philadelphia, sapevo che questo film non poteva esserne molto distante, soprattutto nella filosofia di fondo, nella storia dell'uomo al centro di tutta la vicenda.
Ma forse non mi aspettavo una scelta così radicale.
Il secondo e il terzo film della serie vengono spazzati via come non fossero mai esistiti, e con loro se ne va tutto l'eroismo a stelle e strisce, tutto il machismo anni '80 e anche tutta l'ironia che il personaggio poteva regalare. Il Rambo che abbiamo di fronte è alla soglia dei sessant'anni, stanco, silenzioso, cupo, un uomo che non crede più in nulla e in nessuna bandiera, e che se ne vuole solo stare da solo in qualche angolo di mondo. E fin qui niente da dire, il filmato iniziale che apre il film potrebbe far pensare anche a qualche intento di denuncia (contro le condizioni della popolazione birmana).
Peccato che poi bastino gli occhi dolci e qualche parola - banale - della bionda di turno, peraltro neanche una stragnocca siliconata, ed ecco che il vecchio John accetta di rimettere le mani nella melma, almeno un po'.
Nei primi cinquanta e passa minuti di film (che ne dura poi 90 scarsi) vengono sparate poche pallottole, non c'è un sorriso, le battute dello stesso Rambo sono pochissime e monocorde. E vabè.
Poi, quando sembra che tutto torni tranquillo, si scopre che le persone - bionda inclusa - che il protagonista aveva accompagnato alla loro destinazione sono state rapite dai sanguinari birmani, e allora ecco che il nostro si incazza come una biscia e, di fatto, guida un gruppo di mercenari a recuperarle. A questo punto i morti fioccano da tutte le parti, e in tutte le salse: frecce che sibilano, coltelli forgiati a mano, giugulari strappate con le nude dita, mitragliate di non so che calibro a distanza ravvicinatissima, con un effetto splatter che spruzza sangue un po' ovunque.
La scena finale, che non voglio svelare per chi vedrà il film, è quasi sicuramente la migliore della pellicola, nonostante l'impari confronto con il Rambo di quasi trent'anni fa e la pettinatura poco credibile di Stallone. Come già Rocky Balboa prima di lui, anche John Rambo abbandona la scena, chiudendosi un degno sipario alle spalle.
"Mi ripugna ammetterlo, ma stiamo diventando troppo teneri."
"Forse solo un tantino, signore. Solo un tantino."
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