18 ottobre 2002.
Un treno preso nel cuore della notte, quando nemmeno gli anziani che bevono l'inevitabile bianchino sono già al bar sotto casa.
Cambio volante a Milano centrale, poi giù verso Bologna.
Sciopero generale. Di qualsiasi mezzo.
Qualche kilometro a bordo di un lungimirante pullman, poi un piede dietro l'altro, finchè la sagoma di un'enorme testuggine addormentata si staglia all'orizzonte.
Il PalaMalaguti.
Stasera suonano Bruce Springsteen & The E Street Band.
Per qualche strano motivo, e per una serie di casi incrociati, ho aspettato fino al Rising Tour per venire a vederli dal vivo, ma poco dopo le nove di mattina sono davanti ai cancelli, la transenna davanti al palco non me la leva nessuno. Nella fila - quasi - ordinata davanti al cancello 5, mi vergano un numero sulla mano con un pennarello, sarà il mio segno di riconoscimento e la mia salvezza, quando il sangue diventerà troppo caldo nelle vene e mancherà poco all'apertura.
Nel corso della mattinata e del pomeriggio, tra un panino - pagato a carissimo prezzo - con salamella e cipolla e una birra, faccio conoscenza con personaggi più o meno carismatici del sottobosco springsteeniano.
Perchè quando diventi springsteeniano lo devi capire, che compri tutto il pacchetto.
Non basta qualche vinile, qualche musicassetta o qualche cd. Non basta qualche sporadico concerto quando il tour tocca l'Italia.
Ci vogliono appostamenti davanti alle prevendite per i biglietti, ascolti meditati e ripetuti del nuovo disco, lunghi discorsi filosofici su questo o quel testo, notte all'adiaccio con il sacco a pelo incastrato sotto i cancelli di stadi e palazzetti, corse a perdifiato fino alla transenna, stigmate della transenna stessa sul costato, appostamenti davanti agli alberghi in ogni parte d'Europa o del mondo, feste di fan, chitarre acustiche nere, citazioni per ogni dove. Questo, e molto altro, vuol dire diventare springsteeniano.
Ma io, che ho sfoderato il mio primo cd di Bruce (un triplo, in realtà: "Live 1975-85") nel lontano 1986, sfuggendo per un soffio alla croce e delizia di Born in the USA, che ho poi recuperato con tutta calma e con tutti i suoi problemi poco più tardi, sono preparato.
Tanto che, quando dico in tutta tranquillità che spero non faccia Part man, part monkey perchè la considero uno dei punti più bassi di tutta la produzione, qualcuno strabuzza gli occhi, sfogliando mentalmente il catalogo di Springsteen senza trovare risposte.
Il pomeriggio scorre tranquillo, un po' di trambusto all'apertura dei cancelli, la corsa più veloce del mondo verso la transenna, l'assenza del pit, la presenza di un pugno di raccomandati (che vengono spediti nelle retrovie in poco tempo, che qui non è cosa da signorine), l'attesa che sale, e poi le luci che si spengono.
Tutto inizia, ed è un vortice, che va a mille all'ora dal primo all'ultimo pezzo. E oltre.
Sì, oltre, perchè quando Bruce si alza dal pianoforte, dopo aver suonato le ultime note di Thunder Road, saluta il pubblico e scende dal palco, quando i roadies cominciano a spuntare fuori da ogni angolo per mettere via tutto e prepararsi a una nuova tappa del tour, noi zoccolo duro non molliamo. Non molliamo, e urliamo il coro finale, ripetendolo con la grinta e il fiato che ci rimane.
E allora Bruce guarda fuori, ammicca, probabilmente guarda la moglie Patti con una smorfia che significa "che posso fare, mica posso rimanere qui sotto o andarmene via così", e torna fuori, a luci già accese, si siede nuovamente al piano e lascia partire le dita un'ultima volta, tra gli applausi, gli urli e qualche lacrima.
Perchè Springsteen è così, non sai mai cosa ci si può aspettare, ad ogni concerto, ad ogni occasione ne salta fuori una nuova.
Cinque anni dopo, ho undici concerti sulle spalle (107 canzoni ascoltate dal vivo, scusate se è poco), e altri due già in programma tra poche settimane.
Ma quel giorno, quel 18 ottobre 2002, ho visto la luce.
Ma quel giorno, quel 18 ottobre 2002, ho visto la luce.
Nobody wins unless everybody wins. Come on!
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